La vita può cambiare in un attimo, ti può distruggere in un attimo, senza avvisare. Anche ad una madre felice di 4 bambini in una giornata di vacanza.
Oggi vi racconto una storia che ci invita a riflettere sul senso delle cose, tutte, su quanto tutto sia effimero, inafferrabile, precario il nostro modo di vivere per quanto progettato, sperato e amato, amatissimo.
La vita un giro ti dice che sei bello, felice ed in salute, il giorno dopo può annientarti.
Perciò quello che vale è vivere i nostri giorni, uno per uno, al massimo di quello che possiamo. Oggi, perché domani potrebbe essere tardi.
Questo è quello che ci racconta Victoria:
“ La mia è la storia di una vita perfetta distrutta in una frazione di secondo. È una storia che dimostra chiaramente che nessuno di noi può sapere cosa ci aspetta dietro l’angolo e che dobbiamo vivere il presente ed essere grati per ciò che abbiamo.
Il 5 maggio 2013 era iniziato come un giorno qualsiasi. Io, mio marito e i nostri quattro figli ci trovavamo nella nostra abitazione estiva nella Cornovaglia del Nord, per un weekend di festa. E che weekend ci aspettava! Il tempo era magnifico. Dopo una mattinata trascorsa a passeggiare sulla spiaggia, costruire castelli di sabbia e sguazzare in mare, decidemmo di prendere il nostro motoscafo, un RIB, e passammo un pomeriggio favoloso dedicandoci un picnic lungo lo splendido estuario del fiume Camel. Era il primo giro in barca dell’anno ed eravamo tutti di buonumore: si sentivano le nostre risate e le nostre grida mentre cavalcavamo quelle onde agitate. Fu solo mentre facevamo ritorno al nostro attracco che accadde il disastro.
Non volendo che la giornata finisse, uno dei bambini pronunciò urlando le parole fatali “Torniamo indietro!”. Fu una combinazione di fattori: curvammo in modo esagerato e senza indossare il cordino di sicurezza. Ci ritrovammo tutti e sei scagliati in mare aperto, dritti nell’acqua gelida mentre la barca fuori controllo si allontanava a forte velocità. Nell’acqua non riuscivo a capire dove fossero tutti gli altri, potevo solo sentire il mio bimbo di quattro anni gridare: “Basta acqua fredda, mammina, basta!”.
Il mio istinto materno entrò in gioco facendomi nuotare verso di lui. Pensavo che avrei potuto trascinarlo alla spiaggia più vicina, lontano dal pericolo. Il timone era stato bloccato, perciò l’imbarcazione continuava a girarci intorno a tutta velocità, colpendoci. Riuscivo a sentire il ruggito del motore alle nostre spalle e, mentre ci guardavamo intorno per capire dove fosse, lo scafo mi colpì con forza il petto e le eliche tagliarono la mia gamba sinistra e quella destra di Kit. Persi la gamba dal ginocchio in giù e pensai che a Kit fosse successa la stessa cosa perché vedevo la sua scarpetta galleggiare in superficie. Ci sono volute più di 12 operazioni e nove mesi indossando una pesante struttura metallica, ma la sua gamba è stata salvata.
Incredibilmente, le mie due figlie riportarono solo lievi ferite fisiche ma quelle mentali sono state enormi a causa del trauma subìto in età ancora molto giovane. Fu la RNLI a soccorrerci (Royal National Lifeboat institution, la più grande organizzazione benefica per la sicurezza in mare, ndt), trasportandoci all’ospedale più vicino, nel Devon, su un elicottero dell’aeronautica militare. Sapevo che mio marito Nicko era stato ucciso perché avevo sentito mia figlia maggiore gridare in acqua: “Papà è morto, papà è morto” ma non sapevo nulla della piccola Emily. Pensavo semplicemente fosse su un altro elicottero, il mio cervello non riusciva a contemplare il pensiero che neanche lei ce l’avesse fatta. Solo più tardi, in ospedale, un poliziotto si avvicinò per darmi la notizia: Emily era morta.
La prima sensazione di un genitore in lutto è di totale annebbiamento, come se non stesse davvero accadendo a te. Ma alla fine questo momento di distacco e stordimento termina, lasciando il posto all’intenso dolore del lutto. Un dolore profondo, violento, straziante. Riesco a descriverlo solo in questo modo. Mi trafiggeva come una lama, che veniva tirata via dal mio corpo per lasciarmi riprendere fiato solo per colpire ancora. Ero pietrificata dalla mia sofferenza, come se nessuno fosse davvero in grado di gestire una perdita simile. Come avrei potuto vivere senza Nicko ed Emily? La verità è che il tempo non si ferma.
Guardavo l’orologio appeso al muro dell’ospedale, incapace di credere che i secondi scorressero ancora. Com’era possibile che il tempo continuasse ad andare avanti? I miei cari erano morti!.
Non esiste una strategia segreta per superare il lutto, non c’è una scorciatoia per passare dall’altra parte evitando il dolore, devi affrontare tutte queste sensazioni per guarire. Elaborare il lutto ci rende capaci di ricostruire la nostra fiducia nella vita e concederci l’opportunità di un futuro stabile e felice. È grazie alla combinazione tra forza interiore, potente istinto materno, amore di familiari e amici e sostegno da parte dell’associazione benefica Child Bereavement UK se sono ancora qui oggi, circa tre anni dopo.
E sopravvivo. Non solo sto sopravvivendo ma sto anche reimparando a vivere, nella mia nuova normalità. Ero determinata, i miei tre figli non avrebbero perso anche me. Sono ancora così giovani ma hanno già perso tantissime cose ed io non sarei stata tra queste. Dovevo trovare la forza per essere entrambi i genitori ed assicurare loro una vita dignitosa. Una vita mutilata ma pur sempre felice.
Nei primi tempi il dolore mi terrorizzava. Avevo paura di non riuscire a farcela, sarei crollata sul pavimento in una pozza di pura sofferenza. Fissai pochi, raggiungibili obiettivi per quei primi giorni come scendere dal letto e vestirmi, un’enorme conquista. Poi gli obiettivi iniziarono a cambiare: sarei sopravvissuta fino alla fine della giornata, poi fino alla completa guarigione di Kit. Dopo mi sarei lasciata andare. Ma non accadde. Continuavo a lottare, scoprendo che il nostro corpo ha un impressionante istinto di conservazione. Ti fa provare giusto il dolore che riesci a sopportare e poi ti lascia in pace, consentendoti di prepararti alla fase successiva.
Ero decisa. Non avrei lasciato che la perdita di un arto definisse chi fossi. Così i miei traguardi si sono spostati sul piano fisico, dimostrandomi che posso ancora vivere al massimo nonostante la disabilità. Ho imparato a sciare di nuovo, a giocare a tennis ed a correre. Ora partecipo a regolari maratone di dieci chilometri e la mia sfida più recente è una gara di Triathlon Sprint a luglio. Non posso sapere se sarò in grado di completarla, ma non ho quella paura del fallimento che sentivo prima dell’incidente.
Prima ero una vera perfezionista, non accettavo il rischio di una nuova sfida per timore di non essere abbastanza e di non affrontarla al meglio. Ora so che sono fortunata ad essere ancora qui e che la vita è fatta per vivere e sfidare noi stessi, perché saremo ripagati con un’immensa sensazione di orgoglio e autostima che trascende la nostra stessa esistenza. Ora mi sento invincibile. Se posso correre una dieci chilometri allora posso superare qualsiasi ostacolo la vita mi metta davanti.
Ritrovarmi così vicina alla morte ha fatto sì che mi spingessi al limite emotivamente e fisicamente. Voglio esortare tutti (che abbiate affrontato una grande sfida o meno) a spingervi fuori dalla vostra comfort zone, perché la ricompensa è enorme.
Visitate il mio sito www.victoriamilligan.co.uk per trarre ispirazione e consigli su come superare il lutto e la sofferenza”.
Victoria Milligan
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